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Una mia scelta?

L’aborto è un diritto ma pochi i medici che lo permettono.
La libertà di decidere per la donna spesso non c’è

di Niccolò Righi 

Nel cuore del dibattito sulla salute riproduttiva in Italia, il diritto all’aborto sancito dalla legge 194 del 1978 sta vivendo una fase piuttosto complessa. Nonostante la legge riconosca alle donne di interrompere a discrezione totalmente personale una gravidanza entro i primi 90 giorni dall’ultimo giorno dell’ultima fase di mestruazione, c’è un fenomeno che sta rapidamente crescendo da alcuni anni: l’aumento dei cosiddetti “obiettori di coscienza” tra i medici, gli infermieri e il personale sanitario delle varie strutture. Oggi, circa il 70-80% dei ginecologi delle strutture pubbliche si dichiara obiettore, creando una serie di ostacoli pratici per le donne che vorrebbero accedere a un servizio che, per legge appunto, dovrebbe essere garantito. Questo scenario sta sollevando interrogativi cruciali: come si concilia il diritto all’aborto con l’orientamento professionale di chi dovrebbe garantire l’accesso alle cure? E ancora: quali sono le ripercussioni su coloro le quali, pur avendo tale diritto, si vedono costrette a fare i conti con un sistema sanitario che non riesce a giungere a una soluzione? Abbiamo provato a chiedere delucidazioni a qualche esperto, con la speranza di a fare un po’ di chiarezza e mettere in luce le sfide quotidiane di un diritto che, a distanza di quasi 50 anni dalla sua introduzione, continua a essere minato da conflitti ideologici e carenze strutturali. 

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