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TESTIMONIANZA DEL PASSATO

La storia di Giuseppina, dalla guerra alla cattedra

di Leonardo Cardini

Abbiamo intervistato Giuseppina sulla seconda guerra mondiale e questo è quello che ci ha detto.

«Sono nata nel 1934, e pochi anni dopo è iniziata la seconda guerra mondiale. Mi ricordo che, quando suonava l’allarme, io e le mia famiglia scappavamo nei fossi per proteggerci dai bombardamenti aerei.

Il 10 agosto 1944, era un giovedì, in un bombardamento, la mia mamma fu uccisa. Era andata a vedere se mio fratello era entrato nel rifugio quando una scheggia di una bomba, esplosa davanti a casa mia, la prese in pieno alla gola. Anche mio fratello Antonio fu ferito a un braccio e portato in un ospedale. Quando tornò aveva 15 anni e fu una cosa tremenda perché il braccio gli venne amputato. 

Dopo la guerra ho provato solo tristezza. Non poteva esserci gioia, perché le disgrazie successe nella mia famiglia erano state troppe.

Sono rimasta con la mia nonna, insieme ai miei fratelli, e ci ha fatto studiare tutti e tre. Io sono diventata maestra e poi, una volta adulta, ho conosciuto mio marito. Abitava nel Casentino, a Poppi, e in un rastrellamento era stato preso dai tedeschi. Disse che non era ancora un uomo, aveva solo 18 anni, però il tedesco a forza di calci, lo mise in una camionetta e lo portò alla stazione. Fu portato in Austria, in un campo di concentramento. 

Fu salvato da un signore per il quale cominciò a fare il calzolaio. Fu molto protetto da questa famiglia, i cui componenti si erano affezionati a lui e viceversa. Quando finì la guerra, lui doveva tornare in Italia e, nonostante il legame reciproco, gli prepararono due valigie e partì a piedi. Ci mise un mese, era diventato quasi un barbone: arrivato a Poppi, quando vide il castello, si mise a piangere. Riprese la sua vita nel suo paese, con tanti ricordi che non potevano più essere cancellati. L’amicizia con questa famiglia che lo ha salvato la manteniamo ancora oggi, Gli hanno salvato la vita perché altrimenti avrebbe fatto la fine di molti altri. All’età di 91 anni mi chiese di scrivere su un quaderno la sua storia ed era così lucido che non aveva dimenticato proprio nessun particolare. Io ho esaurito il suo desiderio perché almeno è rimasta la sua testimonianza. 

Dopo la morte di mia mamma, mia nonna mi cominciò a vestire soltanto di nero. Mi serviva un documento di riconoscimento, mi portarono dal fotografo per farmi una foto. Lui mi vide completamente nera e mi mise un colletto bianco. 

Mio babbo conobbe un’altra donna e ci chiese: “Volete venire con me?”. Noi preferimmo stare con mia nonna. Il più grande di noi aveva 18 anni, cominciò a prendersi cura della famiglia e a proteggerci. Visto che i soldi erano pochi cominciò a dire che non avrei dovuto studiare, fu mia nonna che insistette. Era il mio sogno, era anche quello di mia mamma, diventare maestra. Per mia nonna fu una grande gioia quando potei arrivare a raggiungere il mio obiettivo. L’anno dopo morì: io penso che avesse finito il suo lavoro con noi, che eravamo tutti adulti e maturi».

L’articolo è stato realizzato all’interno del laboratorio “Il giornalismo in classe” al Liceo Russell Newton si Scandicci.

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