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OLTRE LA PERRERA

Salvare il destino già scritto di un cane

di Martina Mercurio – Foto di Silvia Gori

“Non sarai più solo” Odv è un’associazione nata nel 2014 che si batte per salvare i cani dalle cruente perreras spagnole, canili municipali dove gli animali subiscono violenze fisiche e psicologiche e, se non adottati in tempi brevi, vengono soppressi. L’associazione collabora con due rifugi tra Malaga e Barcellona, sostiene le spese per i cani e svolge il ruolo di intermediaria tra i rifugi e le famiglie adottive. Con oltre 700 cani salvati e adottati, l’associazione offre loro una nuova chance di vita. La presidentessa Silvia Gori ha prestato la sua voce per raccontare questa realtà e sensibilizzare il pubblico sulla drammatica situazione che ogni giorno vivono i cani nelle perreras.

Qual è stata la vostra prima esperienza con le perreras spagnole e cosa vi ha spinto a intervenire?

«La mia avventura nel mondo delle perreras spagnole è iniziata per caso, dopo aver visto un servizio di Striscia la Notizia sull’associazione “Una Zampa per la Spagna”. Quando rimasi a casa dal lavoro, i miei colleghi mi consigliarono di iscrivermi a Facebook, dove trovai gruppi che si occupavano del recupero dei cani nelle perreras. Affascinata, mi unii a diversi gruppi fino a quando, insieme ad altri, decidemmo di crearne uno nostro. In pochi mesi divenne un’associazione e, durante le ferie, andai in Spagna per vedere la situazione di persona. Sono passati 11 anni dalla nascita di “Non sarai più solo”, un nome che racchiude un doppio significato: non solo i cani trovano una nuova famiglia, ma anche le persone che li adottano non saranno più sole».

Quali sono le principali difficoltà nel recupero dei cani salvati dalle perreras e come riuscite a restituire loro la fiducia negli esseri umani?

«La gran parte del lavoro viene svolta dai ragazzi dei rifugi spagnoli, che accolgono i nostri cani. Ognuno è unico e, anche se possono condividere paure simili, non sempre reagiscono allo stesso modo. La responsabile di uno dei rifugi solitamente inizia con tecniche come baci e abbracci per abituarli alla manipolazione, ma non tutti i cani rispondono positivamente. Per quelli che continuano ad avere difficoltà, è importante trovare una famiglia disposta ad aiutarli nel loro percorso di recupero. Per questo motivo, nelle adozioni è fondamentale considerare che non tutti i cani sono adatti a ogni tipo di famiglia».

Quale cambiamento concreto potrebbe fermare le stragi di randagi in Spagna o in Europa? 

«In Italia il randagismo è ancora un problema, soprattutto per la scarsa applicazione della microchippatura e il mancato controllo sui cani di proprietà, spesso lasciati liberi nel periodo di calore delle femmine.

In Spagna, fino al 2023, i cani nelle perreras potevano essere soppressi dopo un certo periodo. La legge è cambiata e questa pratica è stata abolita, ma le condizioni delle perreras purtroppo non sono migliorate. Inoltre, che io sappia, in alcuni casi le sterilizzazioni avvengono senza i dovuti esami preliminari, con possibili rischi per la loro salute, e i cani da caccia restano poco tutelati. La soluzione non è semplice, ma servirebbero più controlli e una maggiore consapevolezza sui doveri di chi possiede un cane».

C’è una storia in particolare, tra i tanti cani salvati, che vi ha segnato profondamente e che rappresenta al meglio lo spirito della vostra associazione?

«Sì, Teseo. All’inizio, io e le ragazze con cui abbiamo fondato l’associazione ci siamo unite ad altri gruppi per affrontare l’emergenza sovraffollamento nella perrera di Sevilla, dove c’era il rischio di soppressioni di massa. Abbiamo deciso di salvare Teseo, un lupacchiotto anziano che nessuno stava aiutando. Nonostante chiedessimo supporto, nessuno ci ha aiutato, e quando finalmente una volontaria si è offerta di prenderlo, Teseo era già stato soppresso. Questo ci ha spinto a lavorare da sole, creando il nostro gruppo e promettendo che non ci sarebbe più stato un altro Teseo. Da quel momento, ci siamo impegnate a salvare ogni cane possibile, senza dipendere da altri».

L’articolo è stato realizzato all’interno del “Laboratorio di comunicazione, scrittura e giornalismo” dell’Università di Firenze.

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