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DONARE UN SORRISO CON AVO

Uno sguardo al mondo dei volontari ospedalieri

di Eva Paternoster

Lorenzo Tossani, coordinatore dell’Avo (Associazione volontari ospedalieri) di Firenze ci coinvolge nel mondo dell’associazione rispondendo ad alcune domande durante un’intervista. Ci troviamo all’ospedale San Giovanni di Dio Torregalli di Firenze dove i volontari svolgono la fondamentale attività di accoglienza pazienti e servizio ai reparti di medicina, chirurgia e ginecologia.

Perché entrare nel mondo di Avo?

«Oggi non è facile avere del tempo libero, ancora meno decidere di dedicarlo a qualcosa o meglio a qualcuno. Noi diamo un po’ del nostro tempo a chi ne ha bisogno, alle persone sole. Entrare in Avo per aiutare gli altri, per dedicare del tempo alle persone, questa è la più grande motivazione».

Cosa l’ha spinta a far parte di Avo?

«Il desiderio di aiutare i più fragili dando loro ascolto nei momenti di bisogno. Ad esempio le persone anziane, in un ambiente non quotidiano, come l’ospedale, sono come pesci fuor d’acqua; sono spaesati, con orari diversi, abitudini diverse e quindi avere una persona accanto disposta ad ascoltarli è per loro motivo di contentezza, di sicurezza, non si sentono più soli. Mi ricordo un fatto accaduto tanti anni fa ormai… c’era un paziente anziano che non si voleva alzare dal letto, allora mi sono avvicinato per parlare, scoprendo così che il motivo del suo rifiuto era dettato dalla vergogna: gli mancavano i pantaloni del pigiama e si peritava ad alzarsi. Mi diressi immediatamente giù al pronto soccorso per aiutarlo e una volta dati pantaloni al paziente lui si alzò con grande segno di riconoscenza. Vede, sono le piccole cose che servono e noi facciamo questo».

Cosa significa per lei questa attività?

«Io vengo per dare e per ricevere, mi impegno molto in quello che faccio e così ricevo altrettanto ed è bellissimo. Avo significa ascoltare, esserci per il prossimo che ha bisogno, significa solidarietà. Fare questa attività è fortemente gratificante e di grande aiuto, ciò che trasmette non si spiega bene a parole, andrebbe vissuto in prima persona almeno una volta nella vita». 

Non deve essere semplice stare a contatto con determinate realtà; come riesce a gestire le emozioni durante l’attività di volontariato?

«No, non è per niente facile, soprattutto all’inizio. Le prime volte le emozioni sono difficili da gestire, la rabbia, la tristezza… All’inizio è molto difficile tenere un determinato distacco da alcune situazioni; ci sono fatti che ti toccano. Ma poi, con il passare del tempo, impari: vedi situazioni diverse, conosci persone, ti formi sotto questo punto di vista e fai esperienza. Così riesci a controllare le emozioni sia sul luogo dove svolgi l’attività di volontariato sia a casa; perché è importante anche non portare in famiglia le emozioni che provi qui» 

Riprendendo questa ultima cosa che ha detto, quanto è difficile non portare le emozioni a casa?

«Ho iniziato il mio percorso con Avo nel 1992 a Firenze e durante il corso di preparazione mi dissero molte volte che sarebbe stato necessario non dimenticarsi della famiglia, dei parenti e del lavoro, ma al tempo stesso che sarebbe stato fondamentale non portare situazioni e storie conosciute come volontario a casa. All’inizio questa cosa è stata difficilissima, i primi tempi non è stato per niente semplice costruire questo muro, questa divisione tra la persona che ero e l’attività di volontariato che ogni giorno mi metteva davanti a storie difficili. Con il passare del tempo, piano, piano ho imparato a dividere le due cose, ad avere più controllo emotivo, a tenere le due sfere della vita distinte tra loro. Dopo tanti anni di servizio posso dirmi molto ferrato in questo». 

C’è una storia che l’ha colpita particolarmente?

«Sicuramente la già citata storia del paziente senza pantaloni del pigiama. Un altro bellissimo aneddoto, che mi ha segnato molto e che tutt’oggi ricordo lucidamente è la storia del ”Signor nessuno”. Anni fa, durante un servizio nel reparto di medicina, entro in una stanza e vedo tre malati, quello nel mezzo mi chiama e mi chiede di avvicinarmi, allora avanzo verso di lui finché non esordisce: “Finalmente qualcuno!”. Allora io, un po’ sbalordito, gli rispondo che non era solo, indicando gli altri due pazienti nella stanza. A quel punto egli ribatte : “Questo a sinistra non fa altro che dormire e questo a destra non fa altro che brontolare! Non riesco a parlare con nessuno qua dentro!”. Così gli rammento la presenza dei medici e degli infermieri che poco prima avevo visto uscire dalla stanza. ”Sì! I medici guardano le cartelle, parlano tra loro e vanno via! Gli infermieri invece mi danno le medicine e vanno via, e io resto qua solo senza parlare”. L’aneddoto del Signor Nessuno mi è molto caro perché mi ha messo davanti a ciò che non credevo possibile fino ad allora. Com’era possibile sentirsi soli in un ospedale così grande e così pieno di gente? Il Signor Nessuno mi ha fatto capire quanto fosse fondamentale il nostro compito di ascoltatori. Facciamo anche altre cose, per esempio seguiamo gli operatori sanitari con il carrello da mangiare e sistemiamo il vassoio per i pazienti. Un tempo facevamo anche la barba ai più bisognosi, ci chiamavano addirittura barbieri, che bello! Che storia! Adesso questo compito viene assegnato dalla direzione sanitaria e quindi non ce ne occupiamo quasi più Le voglio raccontare un’altra storia che mi ha emozionato molto. Ormai tanti anni fa mi sono trovato faccia a faccia con una donna molto giovane che purtroppo aveva un tumore al seno avanzato. Aveva bisogno di parlare e così mi confidò come avesse ormai accettato questa terribile malattia, ma non avesse ancora accettato il fatto di lasciare soli i propri figli e suo marito. Parlare con lei mi toccò profondamente e il suo bisogno di essere ascoltata mi emoziona ancora oggi».

Prima dell’emergenza sanitaria da Covid19 facevano parte di Avo più di 60 volontari, adesso sono rimasti in poco più di 20 e per la maggior parte pensionati. «Pochi ma buoni, pieni di amore e solidarietà verso il prossimo» come afferma Lorenzo Tossani. 

L’articolo è stato realizzato all’interno del “Laboratorio di comunicazione, scrittura e giornalismo” dell’Università di Firenze.

 

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