Il racconto di un immigrato africano nel nostro Paese
di Matteo Bigozzi
Mamadou, è questo il nome di uno dei tanti venditori ambulanti presenti nel nostro Paese. L’uomo, 43 anni, è diventato una mascotte a Campi Bisenzio, in tanti lo conoscono, almeno di vista, e parlano con lui nei supermercati, oppure nei bar frequentati dai più giovani. In tanti ridono e scherzano con lui, ma in pochi sanno la sua storia, che è similare alle tante altre che caratterizzano gli immigrati africani presenti in Italia.
Mamadou, da quanto sei in Italia?
«Sono in Italia da 7 anni, sono venuto direttamente qui perché avevo dei miei amici che si erano già spostati, perciò ho deciso di raggiungerli».
Da dove vieni e cosa facevi nel tuo paese?
«Vengo dal Senegal. Nel mio Paese facevo lavori artigianali (procede a mostrarmi alcuni bracciali di sua creazione che ha con sé), ma le condizioni di vita, la morte dei miei genitori, la morte di qualche fratello e la partenza di qualche amico mi hanno convinto a emigrare in Italia».
Come è stato il viaggio?
«Dal Senegal ho raggiunto la Libia; poi un periodo di stazionamento e poi la partenza verso il Sud d’Italia. Da qui, il ricongiungimento con i miei amici a Firenze».
Come hai iniziato a fare il venditore ambulante?
«Ho iniziato a fare questo lavoro perché i miei amici facevano la stessa cosa, l’ho vista come una scelta naturale. Siamo in cinque e viviamo tutti insieme in una casa in affitto. È piccola, ma poteva andare peggio».
Sai che nel nostro Paese esistono delle attività istituzionali che hanno come obiettivo l’inserimento nel mondo del lavoro e l’insegnamento della lingua?
«No, non so niente di queste attività. Io sono arrivato dai miei amici e il giorno dopo ero davanti adun supermercato a vendere oggetti di vario genere».
Come organizzate il lavoro? Conosci qualcuno che vende anche altro?
«Siamo divisi a zone: io sono a Campi, qualcun altro è a Prato, altri in altre zone di Firenze. In questi anni ho conosciuto venditori che non sempre proponevano solo oggetti. Qualcuno vende anche la droga, “assunto” da altre persone. Mi hanno chiesto di fare lo stesso, mi dicevano che si guadagnava molto di più, ma non mi sono fidato. Ho avuto paura».
Ma alla luce di questo, stai meglio qui in Italia?
«Sì sto meglio, magari non è come speravo. Ma rispetto al mio Paese, almeno qui ho speranza, in Senegal c’è troppa povertà».
Hai un sogno?
«Diventare ricco».
Una risposta che mi ha strappato un sorriso, perché non è la prima volta che lo sento dire. Non è l’unico “vu cumprà”, questo è l’appellativo che spesso utilizziamo per identificarli, con cui ho avuto il piacere di parlare negli anni; e la maggior parte di loro, alla domanda “hai un sogno?”, mi ha risposto così. Ovviamente su di loro pesa il contesto dal quale provengono, lo stile di vita, che comparato a quello che vedono altrove risulta povero e degradato, ma la loro risposta non è poi così tanto diversa da quelle vengono date da cittadini italiani. Alla fine, viviamo tutti nello stesso mondo.
L’articolo è stato realizzato all’interno del “Laboratorio di comunicazione, scrittura e giornalismo” dell’Università di Firenze.