È davvero inspiegabile la mancanza di infermieri nelle strutture sanitarie?
di Alice Baldi
Turni massacranti, reparti sovraffollati e il rischio costante di non riuscire a garantire un’assistenza adeguata ai pazienti sono solo alcune delle conseguenze di un sistema al collasso. Gli infermieri sono i più penalizzati, costretti a turni estenuanti e a gestire stress e tensioni derivanti da condizioni sempre più critiche, oltre a dover sostenere pesanti responsabilità e il malcontento di pazienti e familiari. Ma cosa significa realmente lavorare in queste condizioni?
Caterina, infermiera da circa quattro anni, che lavora in un centro privato riabilitativo, nei reparti di riabilitazione pneumologica e cardiologica, ci ha raccontato le condizioni attuali della struttura in cui è impiegata. Caterina ha solo venticinque anni e lavora da appena quattro, e già la sua passione e dedizione, che l’hanno spinta a fare la scelta di diventare infermiera, vacillano. È inutile stupirsi se i giovani non scelgono più di intraprendere il percorso universitario in infermieristica. Finché le condizioni di lavoro resteranno così difficili e poco valorizzate, sarà sempre più raro trovare chi voglia dedicarsi a questa professione.
Qual è la situazione nel tuo reparto in termini di pazienti e di personale?
«Attualmente il mio reparto si occupa di circa una quarantina di pazienti, il personale invece, sarebbe un numero giusto se effettivamente il centro fosse soltanto riabilitativo. Tuttavia, accade sempre più spesso, che i pazienti che ricoveriamo non rispecchino i requisiti per una mera riabilitazione. Negli ultimi mesi è aumentato enormemente il carico di lavoro, i pazienti sono sempre più complessi e difficili da gestire con gli attuali numeri di personale, e per questo sarebbe necessario un aumento di staff, sia infermieristico che medico. Essendo una struttura privata, sulla carta il personale è adeguato, ma nella pratica non basta».
Quali sono le difficoltà che incontrate a causa della carenza di personale?
«Considerando che i turni di lavoro sono tre, mattina, pomeriggio e notte, e che il personale che è impiegato per i primi due è di una decina tra infermieri, Oss e altri operatori, e spesso non bastiamo, il vero problema si manifesta la notte, dove siamo soltanto in tre, a controllare quaranta pazienti. La situazione è imprevedibile: a volte riusciamo a gestire tutto, altre volte siamo costretti a fare il doppio per garantire assistenza. Noi ce la mettiamo tutta, ma spesso, la carenza di personale limita i nostri servizi».
Come influenzano la qualità dell’assistenza ai pazienti?
«Non sempre possiamo dedicare il tempo necessario a ogni paziente. Le procedure essenziali vengono svolte, ma spesso, per mancanza di tempo, rinviamo alcune operazioni al turno successivo, riducendo l’attenzione sul singolo. Sulla carta il personale sembra sufficiente, ma in pratica i pazienti richiedono più tempo e cure. Abbiamo di fronte persone che hanno bisogno di più attenzioni e di più tempo per essere assistite, e questo non viene mai considerato».
Come incide la carenza di personale sui turni, sul benessere psicofisico degli infermieri e sull’assistenza ai pazienti?
«Facciamo spesso ore extra. Se fossimo di più, non sarebbe un problema, ma spesso dobbiamo coprire anche le assenze per malattia o ferie, e ci ritroviamo con l’acqua alla gola. Diventa una situazione sempre più pesante, lavori ore e ore a dritto senza mai fermarti, e questo inevitabilmente influisce anche sull’assistenza. L’attenzione e la lucidità mentale sono messe a dura prova, e il rischio clinico è maggiore in questa situazione sempre più al limite. Fortunatamente stress e burnout non hanno ancora avuto un forte impatto su di me, ma vedo nei miei colleghi, soprattutto quelli più anziani, gli effetti collaterali, a partire dai litigi con il personale, che sono strettamente correlati allo sfinimento psico-fisico».
Perchè meno giovani, oggi, scelgono di diventare infermieri?
«Sicuramente lo stipendio, che non rispecchia le responsabilità effettive che abbiamo né tantomeno il carico di lavoro. Inoltre, l’introduzione di nuove figure sanitarie, come l’assistente infermiere, rischia di svalutare la nostra professione, pur mantenendo intatte le nostre responsabilità. Questo ci fa sentire svalutati come professionisti, che hanno conseguito una laurea che hanno faticato per le ore interminabili di tirocinio. Credo che questa svalutazione della professione influisca sulle scelte di chi vorrebbe diventare infermiere, figura considerata sempre meno sia a livello strutturale, che da parte dei pazienti. Siamo considerati spesso l’ultima ruota del carro, quando in realtà siamo sempre in prima linea, siamo i primi ad accorgerci che qualcosa non va e ad intervenire, siamo i primi ad agire per salvare vite».
Che tipo di interventi o cambiamenti ritieni necessari per migliorare la situazione?
«Nella mia situazione, servirebbe un miglior allineamento tra il tipo di pazienti e il setting riabilitativo previsto, quindi che le Sdo. (Schede di Dimissione Ospedaliera) li rispecchiassero realmente. Anche un aumento dello stipendio non guasterebbe e sicuramente un maggiore riconoscimento dell’autonomia professionale. Sicuramente dopo l’abolizione del Mansionario questa è cresciuta, ma comunque è necessario fare uno step ulteriore, valorizzando e dando il giusto valore e riconoscimento alle qualità, alle competenze e al ruolo, fondamentale, dell’infermiere».
L’articolo è stato realizzato all’interno del “Laboratorio di comunicazione, scrittura e giornalismo” dell’Università di Firenze.