Un’analisi della drammatica attualità congolese
di Pushpanjali Dallari – Foto di Jospin Mwisha
«I miei genitori sono nati e hanno vissuto tutta la loro vita sotto la colonizzazione belga. Non hanno studiato. Io sono nato nel 1969, nove anni dopo la nascita della Repubblica indipendente del Congo, a Bukavu, capoluogo della provincia del Sud Kivu, nella regione orientale del Paese. Una città che ricordo molto fresca, soprattutto di notte, in quanto a 1.400 metri di altitudine: era stata soprannominata la Svizzera d’Africa. Ho perso mio padre nel 1996, all’inizio della Prima guerra del Congo, ma non vivevo più in Africa e l’ho saputo solo due anni dopo: sempre in quel momento mi dissero che una delle mie sorelle era dispersa. Da allora non ho più saputo nulla di lei. Oggi, ancora buona parte della mia famiglia vive a Bukavu e Goma, entrambe sotto occupazione, rispettivamente dal 27 gennaio e dal 16 febbraio, del movimento terroristico M23 e dell’esercito ruandese. La vita laggiù non è mai stata un paradiso, ma nemmeno l’inferno che si vive oggi. Ogni giorno, da quando è iniziata l’occupazione, non si contano i massacri, gli assassini mirati, gli stupri e le violazioni dei diritti umani, ma anche i crimini di guerra e contro l’umanità. Purtroppo, dalla comunità internazionale non vediamo sforzi particolari per mettere fine a questo conflitto. Non è esattamente facile vivere in Congo».
Queste parole provengono da John Mpaliza, ingegnere informatico che, dopo aver lavorato per anni come operatore presso il comune di Reggio Emilia, dal 2014 è diventato attivista a tempo pieno perché, mi dice «non solo gli occidentali ma tutti, proprio tutti, devono smettere di fare finta di non vedere o non sapere, e intervenire subito per mettere fine alla catastrofe umanitaria in atto. Bisogna mettere fine alla politica di due pesi e due misure. Bisogna agire ora. Domani potrebbe essere tardi».
La vita e le parole di Mpaliza riassumono gli ultimi 30 anni di un Paese lacerato da conflitti esterni e interni, e a cui non è mai stato concesso di guarire dalle ferite del colonialismo europeo; al contrario, è stato oggetto di sfruttamento da parte di altri Paesi, dal vicino Ruanda alle potenze occidentali, fino alla Cina, a causa del suo territorio pieno di risorse minerarie.
A questo proposito, lo storico David Van Reybrouck, che sul Congo ha pubblicato una delle opere più importanti degli ultimi anni (Congo, Feltrinelli, 2010), in un’intervista a Le Monde ha parlato di “una maledizione che non è altro che la combinazione di un sottosuolo ricco e di uno stato debole, esposto all’avidità e alle corruzioni straniere”. Il Congo, ha affermato Van Reybrouck nel corso di una conversazione con lo scrittore Nicola Lagioia per minima&moralia, è sempre stato condannato ad avere la risorsa che serviva al mondo in quel preciso periodo storico: «Prima gli schiavi: è brutto dirlo ma è così […]. Poi la gomma, poi il rame, poi l’uranio, poi il cotone… E penso che anche in futuro il Congo avrà nuove risorse importanti. Per esempio, l’acqua potabile».
In seguito alla rivoluzione informatica, il nuovo bottino pregiato è attualmente costituito dal coltan che serve per la fabbricazione di telefonini e computer: ben l’80% di questo prezioso minerale a livello mondiale viene infatti estratto nella regione del Kivu, nel Congo Orientale. La RdC perciò è diventata, secondo Van Reybrouck, «una sorta di enorme negozio, un enorme deposito di stoccaggio. E i muri sono deboli, marci, e tutti cercheranno di infilarci le mani per prendere ciò di cui hanno bisogno».
Questa situazione ha portato a un trentennio di perenne instabilità politica e a conflitti, sobillati ad arte da agenti esterni, con oltre sei milioni di vittime.